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Romanzo di un'indagine di Brunetti in Calabria

un indagine particolare 

"Nessuno ama il dolore in sé, lo cerca e vuole ottenerlo, semplicemente perché è dolore…"

 

                        Romanzo     -Radici di Sangue-

 

 

                 Prologo

Serrastretta, dicembre 1977.

Il gelo mordeva le ossa come un animale affamato. La pioggia battente aveva trasformato la terra 

del cimitero vecchio in un pantano vischioso. Due uomini, uno con una pala e l’altro con un sacco, lavoravano in silenzio tra le tombe abbandonate. Nessuna luce, solo il respiro affannoso e il suono 

sordo del fango.

«È l’unico modo», sibilò il più giovane.

«Il passato non si seppellisce. Ritorna sempre», rispose l’altro.

Poi, il buio.

 

 

 

 

 

             Capitolo 1 – Il fascicolo 143/77

 

La cartellina beige, ingiallita e fragile come pelle vecchia, emanava un odore d’archivio chiuso da decenni. Brunetti la sfogliava lentamente, seduto alla sua scrivania nella Questura di Cosenza. 

Fuori, una pioggia battente filtrava appena attraverso i vetri appannati. Ogni pagina raccontava una storia mutilata: verbali smunti, firme spezzate, lacune che puzzavano di insabbiamento.

Maddalena Stilo, infermiera trentaduenne. Deceduta nel dicembre 1977 all’interno del reparto “Osservazione Intensiva” dell’ospedale psichiatrico di Girifalco. Archiviata come suicidio.

Ma qualcosa non tornava. Alcuni documenti erano palesemente scomparsi. 

Altri sembravano riformulati di recente, come se qualcuno avesse “ripulito” il dossier prima che la 

Procura di Catanzaro lo trasmettesse alla sua attenzione, chiedendo un esame “discreto ma approfondito”.

Brunetti si alzò e versò del caffè in una tazza incrinata. Il centro storico, sotto la pioggia, sembrava 

uscito da un negativo sbiadito. 

Un passato che non voleva morire.

L’ispettore Sofia Giordan bussò e aprì la porta. «Capo, ho fatto una prima verifica incrociata sui registri 

del manicomio di Girifalco. 

Alcuni pazienti, annotati come trasferiti nel ’78, risultano scomparsi anche nelle ASL di destinazione.»

«E i referti ?»

«Mancano, o sono sostituiti da note generiche, ma una cosa mi ha colpito: 

il nome Progetto Radice compare in una nota interna, datata novembre 1977. 

Sembra un’iniziativa sperimentale, forse clinica.»

Brunetti si sedette di nuovo. «Chi altro era presente in servizio quella notte?»

«C’è un nome. Un certo Antonio Berardi, infermiere, uscito dalla professione negli anni ’90,

vive ancora a Catanzaro Lido.»

Brunetti prese un foglio e annotò il nome. «Domattina lo cerchiamo, ma voglio che qualcuno del nostro staff vada prima in Procura, ufficio archivi storici. E controlli se qualcun altro ha chiesto accesso a questo fascicolo.»

Un altro agente, il giovane ispettore Damiano Serra, entrò portando una stampa. «Commissario, abbiamo questo. È una scansione di un registro battesimi di Serra San Bruno. Il nome Maddalena Stilo compare, ma è segnato con una nota: *‘affidata ai servizi della provincia nel 1953’. 

Ha vissuto in istituto fino all'età adulta.»

Brunetti chiuse gli occhi per un istante. Tutto stava diventando più cupo, più personale. «Bene. Chiudete la porta. Da questo momento il caso è riservato. Nessuna fuga, nessun errore. Stiamo scavando nella terra dei morti, e qualcuno non vuole che troviamo le ossa.»

Il mattino seguente, il cielo su Cosenza sembrava una lastra di piombo. 

Il commissario Brunetti arrivò in anticipo in ufficio, la cartellina del caso Maddalena Stilo sotto il braccio e il volto segnato da una notte quasi insonne.

Sofia Giordan era già lì, seduta davanti al computer, gli occhi fissi su una schermata dell’archivio digitale della Regione Calabria.

«Il progetto Radice non risulta nei documenti ufficiali del Ministero della Salute. Ma ho trovato un file, senza autore, nei registri del ’76. Riguarda una "collaborazione sperimentale tra enti assistenziali e istituti religiosi" per la "rieducazione psichiatrica femminile".»

Brunetti si massaggiò la fronte. «Tradotto: lager con crocifissi alle pareti.»

Entrò anche l’ispettore Damiano Serra, stavolta accompagnato da una donna alta, sui cinquant’anni, capelli grigi raccolti con precisione militare. «Vicequestore, questa è la dott.ssa Elena Colaianni, 

consulente archivista della Procura di Catanzaro, ha analizzato la catena di accesso al fascicolo 143/77.»

«Tre settimane fa», iniziò la Colaianni, «qualcuno ha consultato i documenti in modo non autorizzato. 

Il badge appartiene a un dipendente in pensione da due anni. Un errore informatico? O qualcuno ha 

usato la sua identità per accedere e sottrarre materiale.»

Brunetti la fissò. «Perché proprio adesso?»

«Perché», rispose la Colaianni, «nella stessa settimana è morto un ex degente del manicomio di Girifalco. Annegato in una fontana a Soverato, si chiamava Domenico Arcadi, 81 anni. Il suo nome compare nei registri del 1977 accanto a quello di Maddalena Stilo

Sofia sussurrò: «Come se stessero cancellando ogni testimone.»

Brunetti si alzò, guardando il quadro appeso alla parete: un olio scuro della città vecchia, avvolta dalla nebbia. «Se davvero c’è stato un progetto sperimentale coperto da enti religiosi e statali, e se una donna è morta per impedirne la denuncia… allora non è solo un cold case. 

È un avvertimento che dura da mezzo secolo.»

Serra annuì. «Girifalco ha chiuso nel ’79. Quello che resta oggi è un rudere, ma gli archivi interni, se non sono stati bruciati, dovrebbero trovarsi in un deposito a Tiriolo, sotto custodia dell’ASP.»

Brunetti si voltò verso la Colaianni. «Dottoressa, può ottenere un'autorizzazione per una verifica ispettiva come revisori storici? Ufficialmente, cerchiamo atti sanitari degli anni ’70 per un progetto sulla chiusura dei manicomi.»

Lei annuì. «Due giorni, e vi preparo anche dei pass.»

Brunetti tornò alla sua scrivania. «Nel frattempo, Damiano, tu rintraccia Antonio Berardi, l’ex infermiere. 

E Sofia tu, approfondisci tutto su questo “Progetto Radice”. Voglio nomi, enti, fondi, anche se sono nascosti in una nota a margine.»

 

Il cielo si stava schiarendo, ma nell’aria aleggiava una promessa d’inverno, e di tempesta.

Il pomeriggio scivolava grigio tra i vicoli di Catanzaro Lido, quando il vicequestore Brunetti e l’ispettore Damiano Serra scesero dalla macchina. Di fronte a loro, un vecchio condominio anni Sessanta, intonaco sbiadito e balconi arrugginiti. L’appartamento di Antonio Berardi si trovava al terzo piano.

«Berardi è vedovo, vive solo. Pensionato dal 1991. Nessuna denuncia, nessun precedente, ma ha lavorato in reparto a Girifalco per quasi quindici anni», disse Serra, controllando la nota sul taccuino.

Brunetti fece un cenno e suonò il campanello, nessuna risposta, riprovò.

Dopo qualche istante, la porta si aprì di pochi centimetri, un volto segnato dagli anni, pallido, quasi scolorito, occhi chiari, incavati.

«Chi siete?»
«Polizia. Vicequestore Brunettie l'ispettore Serra, le dobbiamo parlarle di Maddalena Stilo.»

Un lungo silenzio, poi, la porta si aprì, l’odore che ne uscì era un misto di polvere e carta umida.

Berardi si sedette lentamente in una poltrona vicino alla finestra. «Sono passati quasi cinquant’anni… e ora tornate a chiedere di lei?»

Brunetti si sedette di fronte, senza prendere appunti. «Non è mai stata chiusa per noi.»

Berardi annuì. «Era diversa, una donna vera, in un posto dove la verità non serviva, si prendeva cura dei pazienti… come se fossero esseri umani, capisce? E questo dava fastidio.»

«A chi?» domandò Serra.

Berardi si guardò attorno, come se temesse le pareti. «C’era un uomo, non era del personale, 

lo chiamavano "il Dottore", ma non portava camice, veniva di notte, portava via i pazienti in uno stanzone nel seminterrato, dicevano che era per le "prove cliniche". Lei cominciò a scrivere, a parlare.»

«E poi?» chiese Brunetti.

«Una sera, sparì.» Brunetti si alzò. «Cosa sa del Progetto Radice

Berardi tremò, poi, con voce bassa: «Era il nome in codice, gli internati li chiamavano “i radicati”. 

Quelli che non uscivano più.»

Tornati a Cosenza, Brunetti restò in ufficio oltre il tramonto. 

La città al di là della finestra si era fatta cupa, con i lampioni tremolanti come candele in un altare spento. Il collo gli doleva, riaprì il fascicolo, non poteva togliersi dalla testa quella frase di Berardi: i radicati.

Intanto, in archivio, l’ispettore Sofia Giordan stava catalogando alcuni faldoni quando notò qualcosa di strano, un vecchio registro degli anni ’70 era stato reinserito nella sezione sbagliata, mancavano tre pagine, e non erano strappate: rimosse con precisione, taglio netto, chi le aveva prese sapeva cosa cercare.

Rientrata in ufficio, trovò Brunetti appoggiato con i gomiti alla scrivania, gli passò il registro.

«Qualcuno è tornato a rovistare tra le nostre ombre, e lo fa con precisione chirurgica.»

Brunetti sfogliò il volume. «Vuol dire che siamo sulla pista giusta.»

A quell’ora, Damiano Serra stava tornando a casa, aveva lasciato la macchina in via Riccardo Misasi. 

Aveva percorso solo pochi metri a piedi quando notò il rumore di passi dietro di sé, si voltò, nessuno.

Accelerò, un’ombra lo seguiva, distante ma decisa.

Girò l’angolo, prese il cellulare ma non c'era campo.

Si fermò sotto un lampione, il cuore che batteva più forte, un’auto nera, con i vetri oscurati, era parcheggiata poco più avanti. Il motore acceso. Quando fece per avvicinarsi, i fari si spensero di colpo, nessuno scese. L’auto partì lentamente, nessuna targa visibile.

Damiano si fermò davanti al portone, il respiro affannato, entra e una busta marrone era infilata 

nella cassetta della posta. 

Nessun mittente, nessun indirizzo, dentro, una sola frase scritta a mano:

“Chi scava troppo a fondo finisce sotto.

 

L'idomani Brunetti e Sofia vanno al deposito archivistico dell’ASP a Tiriolo dove si trovava in una ex scuola elementare, abbandonata da tempo e riadattata con un’efficienza tutta calabrese: scaffali impolverati, 

luci intermittenti, un odore persistente di muffa e carta fradicia.

L’autorizzazione della dott.ssa Colaianni aveva funzionato. Un impiegato svogliato li accompagnò fino alla sezione "1970–1979 – psichiatria". 

Poi li lasciò soli, senza nemmeno chiedere un documento.

Brunetti e Sofia indossarono i guanti e iniziarono a sfogliare.
Nomi, numeri, registri dei ricoveri, plichi rilegati con spago.
Il tempo sembrava aver stratificato tutto come polvere di lapide.

«Ecco il 1977,» disse Sofia, tirando giù un faldone segnato

“girifalco / chiusura anticipata – reparti femminili”.

Tra le pagine, trovarono una relazione senza firma, ma con intestazione del reparto “Osservazione Intensiva” datata novembre ’77. 

Descriveva sinteticamente “anomalie comportamentali di operatori sanitari”, e tra le righe, un riferimento freddo:

“Interferenze interne al protocollo. Si consiglia il trasferimento coatto o la sospensione dell’infermiera STILO, con segnalazione discreta all’autorità ecclesiastica.”

Brunetti rimase in silenzio, poi Sofia, cercando tra le tasche del faldone, trovò una foto.

Bianco e nero, malconcia.
Mostrava un gruppo di cinque uomini in giacca e cravatta, di fronte a un portone metallico. 

Uno teneva in mano una cartellina con una croce latina rovesciata e le lettere: P.R.77.

Dietro la foto, una scritta a matita:
“Secondo livello – archivio sotterraneo.”

Sofia guardò Brunetti. «Archivio sotterraneo? In un manicomio chiuso nel ’79?»

Brunetti infilò la foto nel taccuino. «Se è ancora lì, lo troveremo.»

All’uscita dal deposito, notarono un dettaglio che li fece gelare. 

La portiera della loro auto era leggermente aperta, nessun allarme, nessun furto apparente.

Sotto il tergicristallo, un biglietto scritto a penna, con inchiostro rosso:
“Non scendete nei sotterranei. I morti parlano solo ai disperati.”

Brunetti si guardò attorno, niente. nessuno.

Ma ormai lo sapeva: non erano più soli.

Il giorno dopo, la pioggia aveva lasciato spazio a un cielo basso, color stagno. Cosenza sembrava trattenere il fiato. In Questura l’aria era più densa, come se il mistero avesse peso.

Sofia entrò nell’ufficio di Brunetti con un’espressione che non lasciava spazio a interpretazioni. 

«Abbiamo un problema.»

«Uno nuovo o uno vecchio?» rispose lui, senza alzare lo sguardo dai documenti.

«Il dipendente che ha firmato l’autorizzazione di accesso ai faldoni di Tiriolo non risulta negli elenchi attivi dell’ASP. È andato in pensione nel 2020. Ma la firma è sua, depositata nei sistemi interni. Identica.»

Brunetti si fermò. «Clonazione digitale?»

«O collaborazione interna, qualcuno dentro gli archivi ci sta aiutando, o spiando.»

Damiano bussò e si affacciò, non sorrideva. «Abbiamo rintracciato l’ex tecnico sanitario che lavorava al piano -2 del reparto maschile. 

Si chiama Nicola Sgrò, vive isolato in una contrada sopra Feroleto Antico, non ha voluto parlare al telefono. Ma ci ha detto una cosa: “portatevi un registratore, io parlo solo una volta.”»

Brunetti si alzò. «Andiamoci.»

L’auto saliva lenta lungo la provinciale, le curve si stringevano, 

la vegetazione sembrava voler richiudersi sulla strada, una casa bassa, circondata da querce nodose, apparve tra la nebbia.

Sgrò li stava aspettando sotto il portico, un uomo smunto, barba lunga, occhi arrossati come se non avesse mai smesso di piangere, non parlò fino a quando non si sedettero nel salotto spoglio.

«Voi volete sapere del Progetto Radice, non è una parola, è una prigione,» iniziò.

Brunetti attivò il registratore. «Parli.»

«Nel ’77, venne una commissione da Roma, uno di loro era dell’esercito, non portavano divisa, 

avevano una lista, donne, tutte ricoverate per “squilibri emotivi”, molte giovani. Le spostavano di notte. 

Le chiudevano al piano interrato, non le vedevamo più.»

«E Maddalena Stilo?» chiese Sofia.

Sgrò si irrigidì. «Lei scoprì la stanza, era riuscita a procurarsi una chiave, una notte scese, non tornò più. Tre giorni dopo la trovarono impiccata nel magazzino delle lenzuola, ma io l’avevo vista, lei non si era 

tolta la vita.» 

«Cosa intende?»

«Aveva i polsi segnati da corde, e il viso pieno di lividi.» Brunetti si tolse gli occhiali. 

«Perché non ha parlato prima?»

«Perché… perché il giorno dopo, uno di quelli della commissione tornò, e mi disse: ‘Sparisci, non c’è 

mai stata. E poi… poi incendiò l’archivio secondario, quello vero.»

Sofia si sporse. «Cosa intende per ‘archivio vero’?»

Sgrò tirò fuori da sotto il tavolo una cartellina logora, dentro una mappa disegnata a mano e una chiave arrugginita. «Questo è l’ingresso al tunnel tecnico sotto l’ex ospedale, il secondo livello esiste,

e ci sono ancora documenti, o… resti.»

 

Tornati in ufficio, Brunetti stese la mappa sul tavolo. La linea rossa tracciata a penna indicava un accesso laterale, all’esterno del perimetro ospedaliero, nascosto da rovi e muri crollati.

«Entreremo di notte,» disse. «Solo noi tre, nessun rinforzo, nessun rumore.»

«È un suicidio,» disse Damiano.

Brunetti lo guardò. «No, è una discesa, e noi dobbiamo sapere cosa c’è in fondo.»

Quella sera, mentre controllava le ultime autorizzazioni, Sofia ricevette un messaggio su un vecchio indirizzo email del Ministero che non usava più, mittente sconosciuto.
Oggetto: “Non basta vedere, bisogna ascoltare.”

Allegato: una registrazione audio. Vecchia, scarna, rumori di catene, una voce femminile che prega. 

Poi urla. E infine, un sussurro:

“Mi chiamo Maddalena. Se trovate questa voce, non dimenticatemi.”

Sofia chiuse gli occhi, era iniziata come un’indagine, ora era diventata un ritorno.

 

 

 

 

 

 

 

                         Capitolo 2 – Il fascicolo 143/77 continua

 

La notte li accolse con il suo silenzio denso, quasi vischioso. 

Il vecchio complesso dell’ospedale psichiatrico di Girifalco si stagliava

contro il cielo come un relitto annerito, inghiottito dalla vegetazione.

Nessun cane abbaiava, nessuna luce nelle case vicine.

Brunetti spense il motore a duecento metri dall’edificio. 

Damiano e Sofia scesero subito dopo, armati solo di torce e zaini leggeri. 

Il sentiero che costeggiava l’ex reparto femminile era coperto da foglie morte e rami spezzati.

La mappa lasciata da Sgrò indicava un varco tra due vecchie cisterne, poi una scala secondaria in muratura. 

La chiave arrugginita che avevano con sé avrebbe dovuto aprire un piccolo ingresso di servizio, 

usato decenni prima dai tecnici dell’impianto idrico.

«Stiamo per entrare in un posto che nessuno vuole ricordare,» disse Sofia, controllando la torcia.

Brunetti non rispose. Il suo sguardo era fisso su quel cancello di ferro, mezzo divelto, che sembrava aspettarli.

Il corridoio del seminterrato puzzava di ferro vecchio e urina fossilizzata. 

I muri erano gonfi d’umidità, le piastrelle crepate lasciavano intravedere la carne viva del cemento.

Passarono accanto a vecchie gabbie per bombole d’ossigeno, sacchi di lenzuola sfilacciate, cartelli 

sbiaditi con diciture in corsivo………

 

                     -per adesso vi ho mostrato l'inizio di questo romanzo intricato e complesso--

 

                            Riccardo Brunetti

 

“Controllo dosaggi”, “Locale autoclave”, “Infermeria notturna”.

Poi trovarono la porta.

Era bassa, senza maniglia, con una placca d’ottone annerito:
“P.R.77 – ACCESSO RISERVATO”

La chiave girò al secondo tentativo.

Dentro, l’aria era gelida. Un tunnel si apriva in discesa. Gradini in pietra consumata, pareti foderate da vecchie intercapedini metalliche.

«Secondo livello,» disse Brunetti. «Scendiamo.»

Il corridoio si allargava dopo venti metri. Il soffitto era più alto, archi di sostegno anneriti dal fumo, qui sotto c’era stato un incendio, pensò Sofia,

ma non recente.

Trovarono una porta blindata socchiusa, appena la spinsero, si spalancò con

un lamento meccanico.

Dentro, una stanza ampia, rettangolare, pareti grigie, ganci metallici alle pareti, un vecchio lettino operatorio al centro, sul lato sinistro, una griglia di aerazione da cui entrava solo polvere.

Sulla parete opposta, scaffali arrugginiti contenevano decine di scatole numerate a mano, ogni scatola un’etichetta: 

“Soggetto F3”, “Soggetto A1”, “Reazione 2”.

Damiano aprì una delle scatole, dentro, una bobina di nastro magnetico, una fotografia in bianco e nero di una giovane donna seduta, lo sguardo fuori campo, aveva le mani legate ai braccioli.

«Maddalena?» mormorò Sofia.

Brunetti osservò, no, non era lei, ma il contesto era lo stesso.

Proseguirono verso la stanza accanto, questa volta trovarono una fila di armadietti metallici numerati, alcuni chiusi con lucchetti, uno, 

il numero 9 era già socchiuso.

Dentro, un faldone bagnato ma leggibile, sul frontespizio:
“PROTOCOLLO RADICE – OSSERVAZIONE / IMPIANTI 1976-77”

Brunetti lo sfogliò, pagine dattiloscritte, interlinea stretta, annotazioni a penna, termini tecnici, ma anche espressioni che non lasciavano dubbi:

“Soggetto F-4 reagisce in modo più violento ai cicli di isolamento. Somministrazione neurolettici non sufficiente, si valuta contenimento fisico integrale.”

“Trasferita la Stilo dalla sezione diurna al supporto notturno per iniziativa personale non autorizzata, prevedibile compromissione del silenzio operativo.”

“F. Stilo osservata nella notte del 14 dicembre mentre accedeva al secondo livello.”

A questo punto, Sofia si voltò, aveva notato qualcosa sul pavimento,

un graffio, poi un altro, una serie di linee incise nel cemento, come se qualcuno avesse tracciato un disegno, era un cerchio, dentro, lettere.

“V.E.R.A.”

«Cos’è?» chiese Damiano.

Sofia sembrava gelata. «Un acronimo ma potrebbe anche essere un nome.» Brunetti lo copiò sul taccuino.

Poi si voltò. «Non abbiamo finito qui sotto, questo non è solo un archivio, 

è una confessione.»

Continuarono a esplorare le stanze successive, una era completamente vuota, se non per una lavagna incastonata nel muro, sopra, incise con un oggetto appuntito, parole sparse:

“Ascoltano. Non parlare forte. Non dormire.”
“Lei è viva nei nastri.”
“Radice non è finito.”

Brunetti si avvicinò, sfiorò la lavagna con le dita. «Questa scrittura è fatta con le unghie, o con un pezzo di ferro.»

Sofia tremava. «Qualcuno è rimasto qui sotto, dopo la chiusura.»

Nel corridoio successivo trovarono la sala di registrazione, pareti insonorizzate, pannelli fonoassorbenti staccati. In un angolo, un vecchio proiettore a bobina, spento da decenni, e accanto, un carrello con dodici nastri magnetici etichettati in rosso.

Uno aveva una scritta più leggibile:
“STILO 12/12/77 – INTERFERENZA / MONITO”

Damiano guardò Brunetti. «Lo prendiamo?»

«No, li prendiamo tutti.»

Li misero negli zaini con cautela, i nastri erano fragili, l’umidità aveva corroso le custodie, ma dentro, la memoria resisteva.

Stavano per uscire quando sentirono un suono secco, metallico.

Un rumore di passi proveniva dal tunnel d’ingresso, lontani, lenti, ma decisi, poi un colpo, come qualcosa che cade, nessuno parlò, le torce si abbassarono d’istinto.

Brunetti fece cenno con la mano, si mossero lungo il corridoio parallelo, passando da una stanza laterale, la via d’uscita alternativa segnata sulla mappa di Sgrò era lì: un vecchio passaggio per l’impianto antincendio, stretto, ma percorribile.

Damiano aprì la grata, dietro, un corridoio cieco, ma a metà, una botola coperta da assi.

«Ci passiamo,» disse.

Quando uscirono dall’altra parte, all’esterno, la luna era alta, l’auto era intatta, nessun segno.

Solo, sotto il tergicristallo, un nuovo biglietto:
“Avete svegliato qualcosa che voleva dormire.”

Brunetti non parlò, gettò il foglio nel portabagagli, poi aprì la portiera. 

Il silenzio della notte era diventato denso come il piombo.

Il mattino dopo, in questura, i nastri erano sul tavolo.

Il tecnico forense, Gennaro, collegò il vecchio lettore magnetico d’archivio al sistema digitale. «Non posso garantirvi nulla,

sono deteriorati, ma ci provo.»

La stanza era silenziosa quando il primo nastro iniziò a girare, e un

fruscio, scariche statiche, poi una voce femminile, fioca.

«Io… mi chiamo Maddalena Stilo… oggi è il dodici dicembre, loro non vogliono che parli, ma qualcuno dovrà sapere. 

Qualcuno dovrà dire che qui… che qui ci sono…» Un colpo, urla,

un’altra voce maschile. «Zittiscila!» Poi il nastro si interruppe.

Nessuno nella stanza parlò per lunghi secondi, poi Brunetti si alzò,

andò alla finestra. «Ora sappiamo, ma sapere non basta, adesso dobbiamo provare che non è una leggenda, che il male è stato scritto, e firmato.»

 

Nel frattempo, nella provincia di Crotone, in un magazzino abbandonato, una figura solitaria camminava tra vecchie casse, aveva in mano una fotografia sbiadita, dietr0 scritto a penna:

“V.E.R.A. – Variante Esperienziale Radicale Autonoma – Maddalena Stilo: Caso di fuga / risultato sconosciuto.”

 

L’uomo strinse la foto, poi la infilò in una busta nera.

«Hanno trovato i nastri, e adesso… toccherà a loro.»

 

Nel frattempo, a Cosenza – Archivio Forense

Gennaro guardava lo schermo, un nastro audio si stava lentamente decodificando in tracce vocali e impulsi, ma c’era un segnale codificato che non riusciva a identificare. Sembrava un file cifrato audio–numerico, incorporato in bassa frequenza, fece partire la decodifica, lo schermo si oscurò per un istante, poi apparve un messaggio:

“Chi cerca la Radice, dovrà perdere la propria. Siete pronti?”

Gennaro passò le mani sui lati del lettore, come se accarezzasse un animale morente, ogni nastro era un reperto, ma anche una mina.

«Questo secondo ha più strati di registrazione sovrapposti… ma ce la faccio a ripulirlo,» disse. Brunetti annuì, non si voltava, ma ascoltava, ogni parola lo scavava. Sul nastro 3, la voce era spezzata, una donna che piange, poi un canto, infantile, distorto, e infine un bisbiglio:
«Se esco da qui, non esisto più.» Sofia abbassò lo sguardo, Damiano non riusciva a staccarsi dallo schermo. «Ma chi ha inciso queste cose? 

Chi ha tenuto in vita questa struttura?»

Brunetti, con il fascicolo aperto davanti a sé, indicò una nota a margine:
"F. Stilo ha superato i parametri soglia. Osservazione prolungata richiesta da ‘L’Archivio’. Reperto cognitivo in fase attiva. 

Potenziale per V.E.R.A. 2."

«L’Archivio,» ripeté Brunetti. «Non è solo un luogo, è un’autorità parallela, non registrata. Ma reale.» Gennaro alzò la testa: «Commissario, non è tutto, ogni nastro ha un codice di tracciamento, due di questi sono identici a quelli trovati mesi fa… nei depositi sequestrati alla Fondazione Alfa Sud.»

Brunetti si irrigidì. «La stessa fondazione legata al dossier Orval?»

«Esatto, solo che stavolta... il nome compare nei trasferimenti interni all'ospedale, come se le due cose, spirituale e scientifico, fossero state... fuse.» Francesca, entrata silenziosa nella stanza, osservava da un angolo,  

aveva in mano le copie fotostatiche del protocollo Radice.
«Questa non è solo una struttura di contenimento, qui è stato fatto un esperimento, una cosa durata anni, ma chi lo ha voluto... non è mai stato nominato.»

Sofia guardò il vicequestore. «Crede che ci siano ancora testimoni?»

Brunetti annuì, lentamente.
«Sì. E temo che non abbiano mai smesso di sorvegliare.»

 

 

 

 

 

Provincia di Vibo Valentia – stessa notte

Una donna anziana, con un foulard grigio stretto sotto il mento, attraversava lentamente il giardino di una villa abbandonata, appoggiata a un bastone, avanzava con fatica. La porta della dependance si aprì, dentro, odore di muffa e carta vecchia, sul tavolo, un registratore e una cassetta già pronta. 

La donna premette “REC”.

«A chi ascolterà questo messaggio, il nome è Maddalena,

ma non quella dei documenti, io sono la sopravvissuta,

mi cercate da anni, ma ho imparato a restare nell’ombra,

il Progetto Radice non è mai finito. Solo... ha cambiato forma.»

Poi, la voce si spezzò.
«Brunetti… se davvero vuoi sapere tutto, vieni a Capo Vaticano,

ci sono ancora radici sotto il mare.»

Brunetti riascoltò il messaggio tre volte, in silenzio, ogni parola della donna, ogni pausa, ogni inflessione gli suonava familiare, come se l’avesse già sentita da qualche parte, non solo nel nastro, ma in sogno, o nella nebbia della memoria.
Maddalena era viva. O lo era stata fino a poco tempo fa.

«Capo Vaticano?» mormorò Sofia, sorpresa. «Non è una zona legata all’inchiesta. Perché lì?»

Brunetti chiuse il registratore e si voltò. «Non ancora, ma lo diventerà. 

Se Maddalena ci ha lasciato quel messaggio, sapeva che prima o poi l’avremmo trovato, ci sta guidando verso qualcosa, o ci sta attirando.»

Damiano fece scorrere sullo schermo una mappa dettagliata della costa. «Capo Vaticano... ci sono delle vecchie postazioni militari, tunnel anti-sbarco, qualche stazione radio dismessa. Negli anni ’70 era un’area piena di attività secondarie, molte delle quali non risultano più in archivio.»

«Occorre capire se ci sono immobili intestati a enti sanitari o religiosi. Confrontate con le intestazioni della Fondazione Alfa Sud,» ordinò Brunetti.

Francesca entrò portando una busta gialla.

«Questa è arrivata ora, senza mittente, solo una scritta dietro: 

‘Per voi che non sapete dimenticare.’»

La aprirono con cautela, dentro, una singola fotografia, in bianco e nero,

mostrava una giovane donna, Maddalena, in piedi davanti a un muro segnato da muschi e crepe, alle sue spalle, inciso nel cemento, lo stesso simbolo che avevano visto sotto l’ospedale: V.E.R.A.

Ma non era solo, accanto a lei, un uomo col viso semicoperto da un cappuccio, in mano reggeva una cartella con un marchio in rilievo: 

una radice intrecciata a una croce templare.

Gennaro zoomò sull’angolo in basso a sinistra della foto.
«Una data, sbiadita, ma leggibile: Gennaio 1993

Sofia sussultò. «Allora non è vero che il progetto fu chiuso negli anni ’80. 

È andato avanti in segreto.»

Brunetti annuì. Ogni certezza si sgretolava.
«E se quella nella foto… non fosse Maddalena, ma qualcun’altra? 

Una ‘seconda generazione’?»

Damiano si passò la mano tra i capelli. «Allora non abbiamo solo un 

cold case, abbiamo una rete viva, e ci siamo entrati dentro.»

 

Sila, stesso momento – Grotta di Taverna

Aurora e Vittoria erano ancora sveglie. Il vento fischiava all’ingresso, 

ma sotto, nella camera sepolta, l’aria era immobile.
La mappa antica, trovata nei giorni precedenti, era stesa davanti a loro. Aurora illuminava i punti segnati a mano con una piccola torcia UV,

«Guarda qui, ogni simbolo ha un corrispettivo negli appunti del Protocollo Radice, sono posizioni, luoghi precisi, e Capo Vaticano è uno di questi.»

Vittoria mormorò: «Come se ci fosse un triangolo, un sistema, o una rete sotterranea… di controllo, o di fuga.»

Aurora si irrigidì, dal tunnel, un rumore, lieve.
Un sasso che cade.

Si alzarono. Ma non erano sole.

Il rumore si fece più nitido, non un sasso, ma passi cauti.

Aurora spense la torcia. Vittoria fece lo stesso. Restarono in silenzio, trattenendo il respiro. Il suono proveniva dal corridoio naturale che conduceva al livello inferiore della grotta.

Aurora si abbassò dietro un masso, in mano stringeva il cellulare, già in modalità silenziosa, provò a inviare un messaggio a Marisa, la psicologa che seguiva il progetto con loro, ma la schermata segnava: Nessun segnale.

Poi, una luce, fioca, una torcia, qualcuno stava scendendo, con passo sicuro.

«Siamo state seguite,» sussurrò Vittoria, con un filo di voce. «Ti avevo detto che dopo il convegno di Cosenza quel tipo ci osservava.»

Aurora fece un cenno. «Aspetta il momento, se si avvicina troppo, corriamo verso l’uscita a est, io lo trattengo.»

Ma il buio non diede tempo, la figura era già nella camera, un uomo, alto, con un giaccone scuro e un cappuccio, in mano, una cartellina rigida. 

Non sembrava armato.

«Aurora Santelli,» disse la voce, era calma, quasi gentile. «Vittoria Giordan, non abbiate paura, non sono qui per farvi del male.»

Aurora strinse i denti. «E allora perché ci segui di notte in una grotta dimenticata dalla Storia?»

L’uomo si fermò, posò lentamente la cartellina su una pietra.

«Perché qualcuno deve farvi vedere ciò che avete scoperto, non siete le prime ad arrivare qui, ma potreste essere le prime a uscire vive.»

Vittoria si sporse. «Chi sei?»

L’uomo abbassò il cappuccio, un volto segnato, non giovane, una cicatrice alla tempia sinistra, occhi azzurri chiari, quasi trasparenti.

«Mi chiamo Sergio Lattanzi, sono stato medico interno all’ospedale di Girifalco, ero uno degli addetti al Protocollo, ma me ne sono andato… prima che diventassimo dei carcerieri.»

Aurora fece un passo avanti. «E ora cosa vuoi da noi?»

Lattanzi aprì la cartellina, dentro, un quaderno vecchio, fogli ingialliti, fotografie, una in particolare mostrava Maddalena.
Viva, molto tempo dopo la data del presunto suicidio, con lei, in secondo piano, due bambini, uno dei quali aveva gli occhi identici ai suoi.

«Il Protocollo non era solo contenimento,» disse Lattanzi. «Era riproduzione selettiva, esperienze cognitive trasmesse. Maddalena... è sopravvissuta, e ha generato qualcosa.»

 

Questura di Cosenza 

Nel frattempo, Arturo lavorava su una connessione trovata in un file criptato. La Fondazione Alfa Sud aveva trasferito somme ingenti, centinaia di migliaia di euro, su un conto registrato a nome di una società anonima: “Radix Vitae S.A.”

Il domicilio? Un’isola greca, ma il titolare risultava morto nel 2001.

Arturo alzò lo sguardo, Francesca era lì, con lo sguardo teso.
«Stiamo inseguendo un fantasma?» chiese lei.

«No,» rispose lui. «Stiamo inseguendo un Sistema, un programma iniziato negli anni ’60 che ha trovato il modo di sopravvivere sotto nuove identità,

e se ciò che Maddalena ha lasciato… vive ancora, allora qualcuno vuole proteggerlo, o usarlo.»

 

Capo Vaticano – Due giorni dopo

Il cielo era grigio, teso come una tela prima della tempesta. 

Il mare batteva le scogliere con una regolarità inquietante, quasi rituale.
Brunetti scese lentamente dall’auto, era da solo, aveva lasciato Sofia e Damiano a Cosenza, con l’ordine di non comunicare nulla fino a nuovo ordine aveva bisogno di guardare, ascoltare, senza filtri.

La villa indicata da Maddalena, o da chi si era spacciata per lei, non figurava in alcun catasto, nessun nome, nessuna proprietà, ma c’era, scolpita nella pietra, seminascosta dalla macchia mediterranea, a picco sul mare,

il cancello era arrugginito, ma aperto.

All’interno, un vialetto invaso da rovi, vetrate opache, mura lesionate. 

Ma l’aria… l’aria era immobile, come se trattenesse il respiro.

Brunetti entrò.

Le stanze erano spoglie, eccetto una: la biblioteca.
Libri antichi, documenti, carte geografiche, e una parete tappezzata di fotografie in bianco e nero, coperte da un telo scuro, che Brunetti
le sollevò lentamente.

Erano volti, centinaia di volti.

Volti di donne, bambini, uomini in camice, monaci, pazienti, ogni foto aveva una sigla: V.01, V.02, V.03... fino a V.112.
Ma alcune erano cerchiate in rosso, in alto, al centro, c’era una fotografia che fece tremare il commissario: Maddalena Stilo.

Con la scritta "V.00 – Generatrice".

Un raccoglitore a fianco conteneva verbali manoscritti. Uno di essi era firmato da un nome che non sentiva da tempo: Fra’ Giustino, il monaco legato alla Chiave di Orval.

"La Variabile Esperienziale Radicale Autonoma ha superato le previsioni. Le capacità cognitive trasmesse si moltiplicano nel tempo. 

La progenie è stabile. Gli esperimenti sono migrati verso il modello ‘sovrapposizione’.”

Brunetti chiuse gli occhi, non si trattava più di un’indagine su un omicidio, era un progetto eugenetico, forse addirittura esoterico.
Un'eredità psichica coltivata e tramandata, occultata sotto il velo della follia clinica. Fu allora che sentì il rumore, un clic metallico, proveniva dal piano inferiore, scese, la scala era stretta, al fondo, una porta d’acciaio chiusa con una maniglia a leva, sulla porta, incisa a mano, una frase in latino:
"Radix omnium malorum, et omnium salus."
(La radice di ogni male, e di ogni salvezza.)

Brunetti la aprì, dentro, una sala bianca, fredda, una donna anziana era seduta al centro, aspettava. «Sapevo che saresti arrivato, commissario.»

Aveva gli occhi stanchi, ma vivi. «Mi chiamo Maria Stilo, sorella di Maddalena, ma non solo, sono l’ultima custode della Radice.»

Brunetti non parlava, guardava la donna di fronte a lui come si osserva un animale raro, temuto, forse sacro. Maria Stilo aveva il volto segnato, le mani ossute, la postura di chi ha passato una vita nell’ombra, ma i suoi occhi...
Erano occhi che avevano visto troppo, eppure ancora aperti.

«Maddalena è morta davvero?» chiese il commissario, senza giri di parole, 

Maria abbassò il capo, si tolse lentamente un anello, lo poggiò sul tavolo metallico. All’interno, inciso a mano: “V.E.R.A. – Zero”.

«Non nel modo in cui credete,» disse infine. «La sua identità è stata cancellata, perché ciò che conteneva non poteva essere lasciato libero. Maddalena era... una portatrice, la prima ad aver superato il limite, la prima ad aver parlato con la voce interiore.»

Brunetti si irrigidì. «Sta parlando di... schizofrenia? O di qualcos’altro?»

Maria sorrise, un sorriso stanco, senza allegria.

«No, sto parlando di un’eredità emotiva trasmissibile, di una memoria che passa non per il sangue, ma per la frattura, per il trauma.»

Indicò una parete, c’erano appesi dei disegni infantile, simboli geometrici, spirali, cerchi, uno mostrava una figura femminile col ventre trasparente e, dentro, un altro volto, lo stesso.

«Noi non curavamo la mente, la scomponevamo, cercavamo il punto in cui la coscienza si piega, ma non si spezza. Maddalena era l’apice, ma ha fatto una cosa che nessun altro prima di lei aveva fatto: ha lasciato un segno.»

Brunetti si avvicinò. «Quale segno?»

Maria si alzò, ogni movimento le costava fatica, ma ogni gesto era deciso.
Aprì un cassette, ne estrasse un piccolo cofanetto ligneo e lo aprì.

Dentro, una fotografia plastificata, ingiallita dal tempo, tre bambini in un cortile con una bambina al centro, con occhi grandi, ricci castani, e un’espressione stranamente lucida.
Sul retro, una data: “12 marzo 1999 – Martina”

Brunetti si sentì gelare, Martina.

Il nome della bambina scomparsa da un piccolo centro del catanzarese, anni prima, un caso mai risolto, sparita nel nulla.

Ma il volto... quel volto l’aveva visto in un dossier secondario, non aveva legami apparenti con l’inchiesta, finora. «È sua nipote?» chiese, la voce incerta. Maria scosse il capo. «No. È la continuazione.»

Si avvicinò al Vice questore, gli prese il polso, con forza sorprendente.

«Attento, Brunetti, non sei più un uomo che indaga un crimine, sei diventato parte della memoria e la memoria, quando viene risvegliata, non torna mai a dormire.»

 

Pochi minuti dopo, a Torino – Dipartimento di Neuroscienze Cognitive

Lorenzo, ricercatore, si svegliò di soprassalto nel suo studio, un sogno ricorrente, sempre lo stesso, Maddalena lo guardava e gli diceva:
“La radice è viva. E tu lo sai.”

Accanto a lui, sul tavolo, una lettera aperta. Firmata da Maria Stilo.
Un invito, una richiesta.
E un’unica frase in calce:
“Se sei pronto a ricordare, torna dove hai iniziato a dimenticare.”

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 3 – Le Porte della Memoria

 

Torino era grigia, come sempre a fine inverno. 

Ma quella mattina non era il freddo a stringere il petto di Lorenzo, né 

la pioggia che batteva ritmica sui vetri del suo studio al Dipartimento di Neuroscienze Cognitive, ma era una la lettera, di Maria Stilo.
Un nome mai sentito, ma che suonava con una forza arcaica, non solo una donna, ma un nodo, un richiamo.

"Se sei pronto a ricordare, torna dove hai iniziato a dimenticare."

Rilesse la frase per la decima volta, poi riaprì la busta, dentro, oltre alla lettera scritta a mano, c’era una pagina di diario, firmata “M.”, 

datata dicembre 1977.

"...mi hanno chiesto di dimenticare, ma io non posso. I numeri cantano, 

i muri parlano, e la Radice è dentro. Se sopravvivo non sarò più io, ma almeno saprò che il buio ha un nome. Chi verrà, troverà ciò che resta di me tra le pietre e la voce."

Lorenzo chiuse gli occhi, erano mesi che lavorava a un progetto di ricerca sulla trasmissione epigenetica del trauma. Ma ora, quella teoria, che sembrava accademica e lontana, assumeva un’altra forma.
Come se qualcuno l’avesse scritta trent’anni prima per lui, fece un nome a bassa voce: «Maddalena.»

Accese il computer, aprì la cartella criptata dove conservava tutto ciò che aveva raccolto su Orval, sulla Sila, e sul Protocollo Radice.
La maggior parte delle fonti erano incomplete, o corrotte, ma ora, con la lettera di Maria, alcuni passaggi assumevano senso.

“La progenie è stabile, gli effetti non si trasmettono solo per imitazione ma per esposizione, la memoria... è una radiazione psichica.”

Lorenzo tremò, non era solo scienza, era qualcosa di più profondo, e più pericoloso.

 

Pomeriggio – Stazione di Porta Nuova

Il treno per Paola partiva alle 17:10. Aveva comprato il biglietto senza pensarci troppo e aveva messo nello zaino solo tre cose:

la lettera di Maria. Il taccuino con gli appunti sulle “dinamiche della trasmissione mnestica latente”. Una fotografia, la sola che conservava da quando aveva lasciato la Calabria: lui, bambino, accanto a una suora dagli occhi chiari, sotto, una scritta a penna: 

“Istituto Don Perito – Girifalco, 1989”

Non aveva mai capito chi fosse quella donna, ma ora cominciava a sospettarlo.

 

 

 

 

Durante il viaggio, il convoglio correva tra le montagne e pianure.

Lorenzo aveva la testa appoggiata al vetro, come per riposarsi, nel vagone quasi vuoto, un uomo lo osservava, finora non lo aveva notato ma era lì da quando erano partiti, silenzioso, elegante, troppo elegante per un viaggio di notte.

Lorenzo si alzò, andò al bagno. Quando tornò, l’uomo non c’era più,

ma sul suo sedile c’era un biglietto piegato.

“Chi cerca la memoria, deve rinunciare alla propria. Benvenuto a casa.”

Il treno correva, tutta la notte, verso il Sud d’Italia dal Piemonte, come una saetta che unifica idealmente il Nord Italia e Il suo Sud, due territori lontani per cultura e orografia.

Il mattino seguente il treno ferma a Paola, sulla costa tirrenica, dove per arrivare a Cosenza bisogna prendere un altro treno locale.

Il treno era arrivato in ritardo, come sempre al Sud, e quindi i tempi di percorrenza si erano dilatati. Una pioggia leggera sporcava i vetri, del treno e della stazione. Lorenzo scese con lo zaino sulle spalle, le gambe indolenzite. Non tornava in Calabria da quasi dieci anni, ma i nomi delle stazioni, gli odori, perfino l'umidità dell'aria gli si appiccicavano addosso come un vecchio mantello. 

Nessuno gli chiese dove andasse, nessuno notò che tremava per la stanchezza del viaggio.

A Cosenza prese un’auto a noleggio, e guidò verso sud in direzione di Girifalco.

Arrivò verso le 12:05 a Girifalco davanti all’ Istituto Don Perito.

Il cancello era ancora lì, blu vecchio e scolorito, cigolante.
Una targa semicancellata diceva:
"Ex Istituto Don Perito – Sezione Educativa Femminile – 

Fondato 1956".

Lorenzo si fermò, il cuore gli batteva più in fretta, poggiò la mano sul cancello e tremava. Aveva solo sette anni quando vi era entrato per la prima volta, suo padre era stato ricoverato poco distante, e sua madre, già fragile, non aveva retto. Per un anno era rimasto in quell’edificio, ma la memoria di quel periodo era sempre stata offuscata, come un film sbiadito.

Attraversò il cortile, e si diresse verso il fabbricato principale era chiuso, sprangato, ma la dependance a ovest, che era quella che usavano le suore per le attività ricreative, era socchiusa.
Entrò, polvere, umidità, l’odore delle tende vecchie, ancora lì.
Il refettorio, i lettini, le sedie a misura di bambino, sembrava tutto fermo, come in una capsula del tempo.

E poi, una stanza, quella in fondo al corridoio.
L’aula delle “attività speciali”.
La porta era aperta, entrò, dentro, tutto era identico come lo aveva lasciato, persino il disegno a parete: una radice che si intreccia a una stella a sei punte, fatto con vernice rossa, con sotto la scritta:
Ricorda chi sei, ricorda per loro.”

 

Un lampo nella mente.

Una voce, una suora, capelli bianchi, occhi chiarissimi. 

“Lorenzo, chiudi gli occhi, dimmi cosa vedi, noi siamo ciò che 

conserviamo nei sogni.”

Cadde in ginocchio, con gli occhi lucidi, poi un secondo flash.
Un nastro, una stanza buia, una macchina che registra, e la stessa voce:

“È bravo, reagisce bene, segnate il codice: L–V–03.”

Lorenzo si rialzò.
Tornò nel corridoio, ma si accorse che non era più solo.

Una donna, anziana, lo fissava dall’ingresso, aveva una cartella in mano, una veste grigia, un viso che riconobbe subito.

«Suor Regina?»

La donna annuì, ma non sorrise.

«Ti aspettavamo, Lorenzo, il silenzio è durato abbastanza, ma non tutto è stato dimenticato, qualcuno ha custodito ciò che tu hai voluto seppellire.»

Gli porse la cartella, sopra, una sigla:

“Soggetto L–V–03 / Test di esposizione – gennaio 1990 / 

Condizione: latente”.

Il corridoio era vuoto, le pareti intrise di umidità e di un odore antico, simile a cera e muffa. Lorenzo si era rifugiato in un piccolo parlatorio al piano terra, chiuso da una porta di legno spessa, che cigolò piano prima di richiudersi alle sue spalle. Appoggiò la cartella sul tavolino, con mani quasi tremanti, la luce fioca filtrava da una finestra alta, lasciando la stanza immersa in un chiaroscuro monastico.

Restò fermo, il palmo aperto sulla copertina cartonata.
“L–V–03.” L come Lorenzo? V come...?

Spalancò lentamente la cartella, la prima cosa che vide fu una foto in bianco e nero: ritraeva un bambino con lo sguardo perso, seduto su una sedia di metallo, dietro una grata, indossava una casacca chiara e ai piedi aveva pantofole da ospedale.
Nel retro: “Paziente L.V. – Istituto Don Perito – Anno 1989”.

La sua testa pulsò, aveva cinque anni, allora, e quella foto era... lui.
Sotto l’immagine, un modulo clinico compilato a macchina, con tratti di penna blu:

“Paziente Lorenzo V. – ricoverato in osservazione per sindrome dissociativa precoce. Segni di regressione e silenzi patologici. Nessuna visita familiare registrata.”
E poi, a margine, una nota vergata a mano, con una calligrafia nervosa:
La madre ha rinunciato alla tutela. Il padre: ignoto.

Un colpo secco nel petto, Lorenzo si aggrappò al bordo del tavolo per non cadere.
Chi era davvero Maddalena Stilo?

Il secondo fascicolo conteneva delle relazioni psichiatriche. 

Tutte firmate dalla dott.ssa Maddalena Stilo, responsabile del reparto “Osservazione Intensiva”. In ogni referto, emergeva una costante: un’attenzione particolare, quasi ossessiva, per il caso L.V.

Il paziente risponde solo a me, chiama ‘Mamma’ ma non riconosce il termine, sospetto trauma relazionale profondo, forse legato a un distacco forzato all’età di tre anni.

Un altro foglio, piegato in quattro, era una lettera non spedita, scritta a penna:

A chi leggerà, se mai qualcuno lo farà, io ho custodito questo bambino come si custodisce un mistero sacro. Non sono io sua madre, ma lo sono diventata, ho disobbedito, ho nascosto, ho mentito, per amore e per paura. Se qualcuno vorrà sapere, segua le tracce del 'Protocollo Radice', e cerchi nella villa abbandonata, quella che sorge vicino all’ex vivaio forestale. 

Lì c’è il resto della verità.
                         M. Stilo”

Lorenzo sentì le lacrime agli occhi, ma non le versò, non riuscivano ad uscire come si fossero congelate.
Una domanda si alzò da dentro, come un grido smorzato:
“Cosa mi è stato tolto?”

Chiuse la cartella, non tutto era chiaro, ma un nodo si era sciolto: Lorenzo non era solo un ricercatore tornato a casa, era il centro nascosto e occultato di un esperimento, forse di una protezione, forse di un crimine.

Fuori, la campana del convento suonò l’una.
La voce di Suor Regina arrivò dalla soglia, sottile come una lama:
 “Hai trovato ciò che ti era dovuto, ora devi decidere se restare nell’ombra… o cercare il resto.”

Lorenzo si alzò.
“Andrò alla villa, disse, e dopo, tornerò da Brunetti.”

L’aria del pomeriggio era immobile, Lorenzo guidava su una strada secondaria che si snodava tra pini silani e querce nodose, inghiottita a tratti da banchi di nebbia sottile. I ricordi gli ronzavano nelle orecchie come un insetto persistente, la lettera di Maddalena Stilo lo aveva scosso nel profondo: non solo per ciò che aveva confessato, ma per ciò che aveva taciuto. Parcheggiò accanto a un’insegna scolorita: Vivaio Forestale Regionale – accesso vietato. Di fronte, il sentiero ormai invaso dall’erba conduceva alla villa abbandonata, un tempo residenza del direttore dell’ente forestale. Una casa in stile razionalista, spoglia e severa, con finestre cieche e un portico invaso dai rampicanti. Lorenzo scavalcò il cancello arrugginito, ogni passo sulla ghiaia gli sembrava un’eco indebita, quando varcò la soglia della villa, l’odore di muffa e legno marcio lo investì come un pugno. 

Il pavimento era ricoperto da detriti, frammenti di vetro e foglie secche.

Salì al piano superiore con cautela, seguendo l’intuizione più che la logica. Poi la vide: una porticina nascosta dietro una tenda consunta, che dava su una scala secondaria, stretta e ripida, come nei vecchi edifici di servizio. 

La discesa portava a un vano interrato, dove il tempo sembrava essersi fermato, al centro della stanza, coperto da un telo cerato, un baule di legno chiuso con un catenaccio, e sul muro, una scritta tracciata con carbone:
“Radix – Archivio interno riservato”.

Lorenzo si chinò, osservò la serratura, era arrugginita, ma cedevole, usò una leva improvvisata da una vecchia spranga, e il coperchio si sollevò con uno schiocco sordo. dentro, avvolti in sacchi cerati:

Dei fascicoli datati tra il 1975 e il 1991, tutti con timbri della Prefettura e del Ministero dell’Interno.

Un registratore portatile a nastro, con una cassetta inserita, con sopra scritto: “Confessione M. Stilo – 12 dicembre 1977”.

E infine, in fondo al baule, una scatola di latta con la scritta a pennarello: “V.E.R.A.

Lorenzo impallidì, aveva letto quella sigla una sola volta, sul retro di una foto misteriosa ritrovata da Brunetti nel magazzino di Crotone.

Prese la cassetta, la infilò nel vecchio mangianastri, premette Play.

Una voce femminile stanca ma chiara iniziò a parlare:
-Mi chiamo Maddalena Stilo. Se state ascoltando questo nastro, significa che sono morta… e che qualcuno ha deciso di guardare oltre la paura. 

Il Protocollo Radice non è solo un esperimento, è un patto, un patto tra uomini potenti… e donne silenziose. Ma io non sono più disposta a tacere.-

Lorenzo trattenne il fiato, la voce proseguiva.

-Il bambino, il soggetto L.V., non doveva sopravvivere, ma io l’ho nascosto. E ora... ora il sangue delle radici chiede verità. -

Lorenzo spense il registratore. Rimase in silenzio.

Nel baule, accanto alla scatola V.E.R.A., un’altra cassetta. Questa non aveva etichette, ma sulla plastica era incisa a mano una sola parola, graffiata più volte: “Padre”.

All’indomani, il viaggio verso Cosenza fu lungo e inquieto, Lorenzo guidava senza musica, con il registratore poggiato accanto a lui sul sedile del passeggero, come un compagno muto ma carico di voci, la scatola con i fascicoli era nel bagagliaio, protetta da una coperta. Ogni tanto gettava uno sguardo allo specchietto retrovisore, come se temesse di essere seguito, forse era paranoia, o forse no.

Entrò in città al tramonto, quando le luci cominciavano a punteggiare i balconi e il traffico si faceva più nervoso, salì lungo via Montesanto e in una traversa di via Alimena parcheggiò vicino alla Questura. 

Scese con passo incerto, stringendo la tracolla che conteneva la cartella siglata L–V–03, i nastri e la scatola V.E.R.A.

All’ingresso, la guardia riconobbe il suo nome.
“Mi hanno detto di farla salire direttamente, il vicequestore l’aspetta.

L’ufficio di Brunetti era immerso nella penombra, la pioggia batteva contro i vetri e un odore di caffè stantio aleggiava nell’aria. Brunetti alzò lo sguardo dal fascicolo che stava leggendo e si alzò in piedi.
“Lorenzo, si accomodi.”

Lorenzo non parlò subito, posò il materiale sul tavolo, lo aprì con lentezza, come se fosse un rituale. Poi disse:
Non sono qui solo come ricercatore, forse non lo sono mai stato.
Brunetti non si sorprese. “Vai avanti.”

Con voce tesa ma controllata, Lorenzo raccontò tutto: l’incontro con Suor Regina, la cartella, la villa, il registratore, la voce di Maddalena Stilo.
A ogni parola, Brunetti si faceva più rigido, quando Lorenzo estrasse la scatola con la sigla V.E.R.A., il vicequestore si irrigidì.
“Ne abbiamo trovata traccia a Crotone, in un magazzino dismesso, su una foto, credevamo fosse un acronimo.”

Lorenzo annuì. “Lo è, ma non nel senso tecnico, è un progetto, forse una rete, o qualcosa di molto più profondo. Maddalena dice che si tratta di un patto, qualcosa che affonda nei decenni e lega “uomini potenti… e donne silenziose”.

Brunetti si appoggiò allo schienale.
“Questo non è più solo un cold case, è una spirale, e ci siamo dentro fino al collo.”  Lorenzo tirò fuori la seconda cassetta.
“Questa era in fondo al baule, non ha etichette, ma sopra c’è inciso a mano: “Padre”.”

Brunetti prese il nastro con cautela, lo osservò come si osserva un ordigno.
“Lo ascolteremo, ma non adesso, prima bisogna mettere in sicurezza tutto questo materiale, e lei.”
Fece un cenno a Sofia, che era seduta in silenzio nell’ombra.
“Organizziamo una copia digitale di tutto, e contattiamo Arturo, ci serve subito.

Poi si rivolse di nuovo a Lorenzo:
“Hai fatto la cosa giusta, ma ora devi stare attento, se quello che hai toccato è davvero parte del “Protocollo Radice”, allora non sei più un semplice testimone. Sei una minaccia.

Lorenzo abbassò lo sguardo. “Lo so. ma voglio sapere chi era mia madre, e chi era mio padre, e cos’è stato fatto… a nome mio.

Fuori, la notte scese su Cosenza come una coperta umida, e da qualche parte, tra gli archivi sepolti e le stanze chiuse della memoria, una verità aspettava di essere dissepolta.

 

 

     Capitolo 4 

 

La voce del padre

 

Il registratore a nastro gracchiò per un istante, poi il silenzio.

Nella stanza buia dell’archivio della Questura, dove Brunetti aveva fatto allestire una piccola sala protetta, Lorenzo, Sofia e il vicequestore

sedevano attorno al tavolo, nessun telefono, nessun computer acceso, 

solo il suono meccanico del nastro che si avvolgeva.

Poi una voce, profonda, spezzata, maschile.
Non era una dichiarazione, non era nemmeno una confessione.
Era un testamento interiore.

“Se mi stai ascoltando, significa che tutto ciò che avevo cercato di tenere nascosto è riemerso. Non ti conosco, ma ti ho amato da lontano.
Non sono stato un uomo giusto, né un medico, né un militare, né un padre,
ero solo un ingranaggio.”

Lorenzo rimase immobile, la voce proseguiva, come se parlasse da un pozzo.

“Il progetto 'Radice' è nato negli anni Settanta, in una stanza chiusa dell’Ospedale Militare di Napoli, poi trasferito nel silenzio dei monti calabresi. Bambini prelevati da famiglie povere, da madri considerate ‘instabili’ o ‘inadatte’. Una generazione segnata prima ancora di nascere.”

Brunetti fissava il registratore, le mani strette in pugno.

“Tu… sei uno di loro, e io ho firmato il tuo ingresso nel mondo,
non come genitore, come funzionario.
Mi opposi, troppo tardi, una donna, Maddalena, cercò di salvarti, e per questo… morì.”

Un fruscio nel nastro, un colpo di tosse, poi ancora la voce:

“Il tuo nome in codice era L–V–03.
Il tuo sangue è stato modificato, non con esperimenti, con silenzi, con omissioni, con ormoni e isolamento.
Dovevate essere… ‘radici’. Nuovi semi per un’Italia diversa, più obbediente, più controllabile.”

Sofia si coprì la bocca, Brunetti si alzò lentamente, come se il corpo non volesse reagire.

“Io non ti chiedo perdono.
Ma spero che tu possa trovare un senso.
E se cerchi la verità… non fermarti alla Stilo.
Cerca il nome di battesimo del Progetto.
Non è Radice.
È V.E.R.A.
Un acronimo, un nome, una donna, una condanna.”

Il nastro si interruppe, e poi, come una litania finale, un bisbiglio che sembrava emergere dal fondo della coscienza:

“Il vero padre… è chi decide chi sei.”

Poi il clic.

Un silenzio denso riempì la stanza, nessuno parlò per diversi secondi.

Lorenzo si alzò, slegato dal tempo.

“Non so più se voglio continuare.
Brunetti lo guardò fisso:
“Per questo devi farlo, perché stai scoprendo chi sei, e chi ha deciso per te.

Là fuori, la città sembrava non esistere più, c’era solo il battito di quella voce registrata, che continuava a vivere nel cuore di un figlio non riconosciuto.”

Era notte fonda. La città sembrava dormire, ma nei sotterranei della redazione locale dove Arturo lavorava, un vecchio edificio della zona industriale riconvertito in coworking, la luce del monitor disegnava ombre inquietanti sul volto teso del giornalista. Gennaro, tecnico informatico della Questura, sedeva accanto a lui con una sigaretta spenta tra le labbra e le dita che correvano veloci sulla tastiera.

“Il nome V.E.R.A. compare in una serie di documenti declassificati negli anni Duemila, ma non come progetto sanitario, più come… struttura parallela, tipo Gladio”. disse Arturo.

Gennaro annuì. “Guarda qui: Versamento Emergenziale Risorse Anomale. Un nome in codice per una sezione interna del Ministero dell’Interno, attiva tra il ’74 e l’85. Ufficialmente chiusa, ma in realtà, è come se si fosse dissolta… nei territori.

“Nella Sila?” domandò Arturo.

“Esatto, e guarda questo: dossier 7/S-Cosenza, menzionato in un’indagine dell’Ufficio Affari Riservati. 

Una nota dice: “da inoltrare a ‘V.E.R.A.’, struttura di contenimento sociopatico-pedagogico”.
“Un manicomio coperto da un progetto?”
“Un manicomio… e una rete di controllo, forse. Una donna compare nei documenti firmati: Vera S. , ma il cognome è sempre annerito.”

Arturo si alzò in piedi, improvvisamente inquieto.
Chi era Vera? E perché il nome di battesimo è diventato un acronimo?

Poi il telefono squillò, ma non il suo, quello di Gennaro.
Lo schermo mostrava: “Numero nascosto”.

“Non rispondere.” disse Arturo, troppo tardi.

Gennaro premette il tasto verde, dall’altro lato una voce sibilante:

Avete scavato abbastanza, la prossima volta, vi toglieremo la pala.

Un clic, poi silenzio.

 

Nel frattempo, nella strada di ritorno verso casa, Brunetti guidava da solo. Aveva chiesto tempo per riflettere, per digerire la voce ascoltata sul nastro. La notte pioveva leggera, come un velo, la radio era spenta, il telefono scarico. Fu solo quando frenò all’improvviso, sentendo qualcosa sotto le ruote, che capì, un rumore metallico, e poi uno scoppio secco. 

L’auto sbandò, il volante divenne duro, come pietra, Brunetti fece forza sui muscoli per raddrizzare la traiettoria, ma la macchina finì contro una barriera di protezione, fermandosi sul ciglio della strada.

Uscì barcollando, sotto la pioggia.
Una cintura di chiodi a tre punte era stata piazzata pochi metri prima della curva.
Un sabotaggio, il motore fumava.
Brunetti si guardò attorno, nessuna auto, nessuna luce, nessun rumore.

Poi, nel buio, due fari si accesero in fondo alla strada.
Una macchina, ferma, a una certa distanza, osservava.

Brunetti prese il telefono, nessun segnale, non c’era campo. 

I fari rimasero accesi per qualche secondo, poi si spensero, e l’auto si dileguò nel buio.
Chiunque fosse… non voleva uccidere.
Voleva solo avvertire.